Carissimi,
potrebbe sembrare presto per fare gli auguri di Pasqua, ma sapete che amo muovermi per tempo, consapevole che la settimana santa non è certo il momento migliore per mettersi a scrivere (almeno per un prete). E poi non è che la Pasqua sia così lontana…
La attendo molto, più del solito quest’anno. Dipenderà forse dall’esperienza di morte che ho vissuto all’inizio di questa Quaresima. Eh sì, perché quando se n’è andato don Lorenzo Caviglia, se n’è andata una parte di me, e quindi il desiderio di risurrezione si è fatto più forte.
Chi era don Lorenzo? Un maestro di vita, e potrebbe bastare questo. Quando diventai prete nel 1992 e fui mandato a Varazze come viceparroco e nella frazione di Alpicella come amministratore parrocchiale, c’era lui ad attendermi in paese. In quel periodo era un semplice laico, infermiere presso un complesso industriale a Cogoleto, e al massimo distribuiva la Comunione durante le Messe. Ma era già lui il vero parroco d’Alpicella, ben prima che lo diventasse a tutti gli effetti dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta nell’ottobre 2001.
Alpicella fu la mia prima vera destinazione – anche se part time perché in quel periodo andavo ancora a Bergamo per diventare giornalista – e affrontavo l’avventura con un misto di timore ed entusiasmo. Avevo le mie idee su cosa volesse dire essere prete “modernoâ€, anche perché venivo da un’esperienza di gruppo giovanile che mi aveva messo di fronte un certo modello di sacerdote e condividevo tante belle istanze di rinnovamento della chiesa.
Lorenzo, pur essendo ancora laico quando iniziai a frequentarlo (lo avevo conosciuto come candidato al diaconato permanente), incarnava già bene il “tipo†del parroco di campagna. Era cresciuto con una figura unica di riferimento, il suo parroco don Gino Acciai, carattere battagliero e assai poco diplomatico ma innamorato del suo paese, ed aveva nel cuore quel modello, anche se, da persona intelligente, capiva che i tempi chiedevano uno stile diverso.
Ben presto dovetti confrontare il mio “archetipo†di prete cittadino con il suo di campagna, e misurarmi con una parrocchia che aveva ancora tanti aspetti della tradizione popolare ligure, benché offuscata dagli striscianti miti del benessere e della competizione che avrebbero minato alla base un tessuto sociale e familiare apparentemente solido. In questo mondo Lorenzo era veramente papa-duce-re come i vecchi parroci, ma lo era nel modo più amabile, e il suo regno era la piazza del paese, dove si sedeva a mo’ di trono incontrando tutti e osservando tutto. Nulla gli sfuggiva. E in qualunque paese lo si portasse, anche nei rari momenti di vacanza che si concedeva, era inevitabile che s’impadronisse della piazza.
Da quel “trono†mi ha insegnato tutto. Perché, secondo il magistero di un Nazareno di duemila anni fa, non riusciva proprio a fare a meno di mettersi a servizio degli altri. Gli metteva male dire dei “noâ€, ma non era affatto uno sprovveduto o un ingenuo. Conosceva bene miserie e nobiltà del cuore umano, ma sapeva trattare con tutti e non l’ho mai visto escludere qualcuno dalla sua vita. Era un uomo vero: apparentemente “stondaio†secondo lo stereotipo ligure, in realtà sapeva commuoversi come un bambino e si affezionava come un fratello.
Nessun teologo mi ha insegnato meglio di lui il concetto di “incarnazioneâ€, Come Gesù si è fatto carne e ha condiviso la vita quotidiana della sua gente, lavorando, gioendo e soffrendo con tutti, così lui sapeva davvero essere a fianco di ogni persona, senza bisogno di troppe parole. Non era infatti un grande oratore, la sua migliore omelia era la vita. Me ne accorgevo da certi momenti vissuti insieme, come la benedizione delle famiglie e le feste patronali.
Lo ricordo piangere come una fontana alla fine dell’ultima Messa che celebrai ad Alpicella, nel 1996, prima di partire per Roma. Non ci saremmo mai persi di vista, ovviamente, e devo soprattutto a lui se, dopo quattro anni di servizio presso la Cei, volli tornare a vivere l’esperienza di parroco nella mia diocesi, non cedendo alle lusinghe romane (ce ne sono eccome). Il contatto con Lorenzo e con i suoi amici d’Alpicella, protagonisti fra loro di immancabili fraterni battibecchi, mi aiutò a tenere i piedi per terra e a non dimenticare le mie “originiâ€.
Rientrato a Savona, ebbi la gioia di vederlo finalmente prete, grazie ad una felice scelta di monsignor Lafranconi. Ed ora, dopo cinque anni e mezzo, non riesco ancora ad accettare il suo congedo da questo mondo e il modo assurdo in cui è avvenuto: Lorenzo è morto per le conseguenze di una piaga da decubito, mal curata, andata in setticemia grazie anche al diabete. Un caso di malasanità , di cui il vescovo s’è lamentato col direttore generale dell’Asl. Come si fa nel duemilasette a morire così?
Forse anche lui ha inizialmente sottovalutato quella piaga. Aveva voglia di tornare in parrocchia, dopo una piccola operazione al cuore. Come sempre, pensava agli altri più che a se stesso. Questa volta l’ha pagata cara e, pur essendo infermiere, non è riuscito a curarsi. Al suo funerale c’era un mare di gente, ammutolita e col cuore spezzato. Non so come sono riuscito, alla fine del Messa, a leggere una testimonianza su di lui: forse solo perché ho esaurito le lacrime durante il rito.
Sicuramente vi ho annoiati con il mio racconto. Ma, ve lo garantisco, in questo periodo non ho altro da dire. E, ripensando alla vicenda umana di questo mio amico che ha vissuto cinque anni e mezzo da prete senza risparmiarsi, attendo la Pasqua per rafforzarmi nella convinzione, così bene espressa nel vangelo di Giovanni, che “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto fruttoâ€. E’ Gesù che parla di sé, in quel passo, ma vale per ogni persona che fa propria la logica della croce e crede che c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Grazie a don Lorenzo ho potuto comprendere più in profondità il grande “scandalo†cristiano della croce. L’evangelista Giovanni, che amava i paradossi, lo traduce nell’immagine di quel Gesù Maestro che lava i piedi ai discepoli e che parla del suo “innalzamento†sulla croce come se parlasse della salita al trono regale. Nel piccolo borgo di Alpicella ho avuto, per quattro anni, una lezione pratica di come il Vangelo sia la verità di Dio e dell’uomo. Me l’ha data un uomo vero, e perciò quest’anno la mia Pasqua, anche se celebrata a Savona Villapiana, avverrà idealmente nella chiesa di sant’Antonio abate, a otto chilometri da Varazze e qualcosa di più dal monte Beigua.
Auguri di felice Pasqua a tutti voi, con affetto!