Savona. Finite le ultime note del primo atto il direttore, Alessandro De Marchi, scende dal podio e svanisce dietro le quinte. Il pubblico applaude e continua così per dieci minuti, non vuole lasciarlo andare. Lui esce e, facendo segno di calma con le due mani che sembrano suonare un invisibile pianoforte, su e giù, dice ridendo “l’opera non è ancora finitaâ€. Il plauso scema velocemente, come redarguito, e la folla si avvia verso un bar spoglio di viveri, con personale gentile ma impreparato ad accogliere chi giunge da fuori porta, non ha fatto a tempo con la cena e qui vorrebbe comprare un tramezzino fresco o almeno un croissant di giornata. Invece solo poche brioches in cellophan e qualche snack, anche male illuminati: un po’ inadatto ad una prima nazionale. Il parterre non è sold out e gli astanti non sono in tiro da soirée: niente smoking o decolté. Alcuni, perfino senza cravatta. Massimi rappresentanti delle istituzioni, cittadine e provinciali, pochi pochi. A fine spettacolo, poi, le luci della platea si accendono fulminee sugli applausi generosissimi, come a dire “prego, guadagnate l’uscitaâ€. Decisamente, una cosa da non fare.
Eppure la serata è una delle più importanti e significative che il Teatro Chiabrera possa vantare. La prima nazionale della “favola in musica†che ha dato i natali all’opera lirica e che viene eseguita nel quarto centenario della sua prima rappresentazione, avvenuta nella illuminata corte gonzaghiana di Mantova il 24 febbraio del 1607. Una prima nazionale sfilata alla capitale italiana della musica classica, Torino. Nell’atmosfera un poco surreale che si viveva il 3 novembre scorso si poteva però avvertire, malgrado tutto, una vera passione per l’ascolto, un silenzio più profondo che in tanti teatri metropolitani à la page, dove spesso si aggiunge qualche trombetta o bassotuba a rinforzare l’orchestra presso i malcapitati finiti vicino a narcolettici attempati signori con digestione faticosa. Per non parlare delle inquietudini “tossiche†e tossicchianti dei soliti raffreddati che amano accompagnare i gorgheggi del soprano con espettorazioni a ritmo.
A Savona nulla di tutto ciò succede. Tutti sull’attenti a meditare sul “fato acerbo†del povero Orfeo, cantore errabondo la cui voce e cetra ammansiscono le fiere. Il figlio di Apollo, dio del sole, esprime allegoricamente la forza della ragione, che in quel tempo illuminava le corti tardo rinascimentali come quella di Vincenzo Gonzaga, il mitico duca di Mantova che aveva fatto costruire un teatro di mille posti, e accolto generosamente alla propria corte poeti e artisti come Tasso e Rubens. Una ragione che però si schianta contro il destino avverso e contro la morte dell’amata Euridice, tolta alla vita dal morso di un serpe venefico, mentre raccoglie fiori insieme alle ninfe. Proprio una di queste annuncia la sventura a Orfeo, nella scena culmine, dove l’emozione e il bel canto in pianissimo di un Orfeo smarrito nel dolore tolgono il fiato alla platea. Sarà poi Proserpina a convincere Plutone, il re dell’Ade, a consentire a Orfeo di superare l’Averno, il fiume dell’oblio dove i morti s’immergono prima di lasciare la terra dei vivi. Col canto, l’aedo mitologico addormenta Caronte, il traghettatore di anime, e ottiene da Plutone il permesso di riportare in vita Euridice, ma ad un patto: “volga da lei gli avidi lumiâ€, sentenzia il dio, fino a che non saranno fuori dal suo regno. In questa favola musicale, su libretto spiccio ma altamente poetico di Alessandro Striggio, che lo trae, con la sola variante dle lieto fine, dalla Fabula di Orfeo composta per la corte mantovana nel 1480 da Angelo Poliziano, fondatore del teatro moderno. L’incontro tra i due amanti è breve, non certo pucciniano. Ma non importa poiché l’ottimismo dei giorni del Carnevale mantovano, per i quali Monteverdi fu chiamato a comporre l’opera, richiedevano più spirito di danza, più allegria assicurata dall’apoteosi finale di Orfeo che vola in cielo dal luminoso padre Apollo. L’opera, rischiarava così i passati tempi bui con un happy end fuori dal programma di Poliziano ma sinceramente rinescimentale. La morte può anche toglierci il bene più prezioso ma non sconfigge l’eroe, che sale in cielo protetto dalla luce. Ma c’è anche un’altra morale della storia: la ninfa l’espone dicendo che Orfeo perde il suo bene per “troppo amoreâ€, per il suo desiderio di rivedere Euridice, senza pazientare quanto dovuto. Una morale che giunge intatta fino ai giorni nostri.
Le emozioni non mancano, anche quelle “intellettualiâ€, assicurate dalla presenza degli strumenti originali del diciasettesimo secolo, fra cui un “regale†(organo portativo con registri solo ad ancia), un virginale (strumento a corde simile al clavicembalo), cornetti, chitarroni, due cembali, la viola da gamba (che si suona con un archetto e tenendola orizzontalmente come una chitarra), l’arpa doppia (inaugurata propriocon l’Orfeo) nonché flauti diritti, liuti, viole, violini, violoncelli, contrabbassi, trombe e tromboni. La partitura di Monteverdi è seguita fedelmente dallo stimato direttore dell’Academia Montis Regalis, complesso premiato come migliore insieme musicale dai critici italiani nel 2006, Alessandro De Marchi, il quale tripartisce nel teatro Chiabrera l’orchestra, ponendo in tre differenti luoghi (in galleria e sul palco) gli organici che suonano la musica degli inferi, quella terrestre e quella paradisiaca. Molti “bravo†sono piovuti su Furio Zanasi a fine spettacolo, autore di un Orfeo molto credibile, malgrado la rappresentazione fosse in forma di concerto, con la piccola pecca di qualche cenno recitativo da parte dei solisti a volte scomposto. Un plauso meritato per una voce di tenore dall’impasto morbido e caldo, a tratti suadente e cullante come dovrebbe essere la voce di Orfeo, condotta con grande controllo nel registro medio senza esagerazioni canore atipiche per l’opera monteverdiana. Una “tenuta†che ha sostanzialmente mantenuto tutta la compagine, incluso il Coro Filarmonico “Ruggero Magrini†diretto dal maestro Claudio Chiavazza.
Insomma, un’opera capitale giunge a Savona, per una prima che rischia di passare quasi inosservata, anche sulle testate importanti che attendono Torino per scatenare i critici più accreditati. E va bene così, ma intanto l’Opera Giocosa, che il 9 e l’11 novembre propone un altro capolavoro del teatro d’opera come l’Orfeo e Euridice di Gluck, va encomiata per l’impegno e le capacità dimostrate, con l’augurio che possa continuare a regalare queste delizie a un pubblico che di fatto lo merita.
Nicola D. Angerame